RIFORMULATA - Camera dei Deputati -1-00313 -Mozione sulla cosiddetta «Digital Tax», l'imposta applicata sui ricavi derivanti dalla fornitura di servizi digitali.
Camera dei Deputati -1-00313 -Mozione presentata il 14 gennaio 2020.
La Camera,
premesso che:
con la legge 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio 2019) prima e, successivamente, con la legge 27 dicembre 2019, n. 160 (legge di bilancio 2020) è stato definito il perimetro normativo della cosiddetta «Digital Tax», ovverosia l'imposta applicata, nella misura del 3 per cento, sui ricavi derivanti dalla fornitura di servizi digitali;
la forma e le modalità applicative della suddetta «Digital Tax» sono state mutuate dalla proposta di direttiva COM(2018)148 final del Consiglio relativa al sistema comune d'imposta sui servizi digitali applicabile ai ricavi derivanti dalla fornitura di taluni servizi digitali;
l'imposta introdotta dal Governo nel dicembre 2019, nel condivisibile scopo di assoggettare al dovuto prelievo fiscale i grandi operatori internet, i cosiddetti «Ott» (over-the-top), purtuttavia, per come formulata, non consente di escludere dal campo di applicazione le imprese che fruiscono, dietro corrispettivo, dei servizi digitali messi a disposizione dagli (Ott) e, soprattutto, le imprese nazionali;
le suddette criticità, oltre a non aver consentito nel corso del 2019 di rendere effettivamente operativa l'imposta, sono state segnalate all'Esecutivo da tutta la filiera digitale, conducendolo ad apportare una serie di correttivi all'imposta con la citata legge di bilancio 2020 che, comunque, non consentono di escludere dal campo di applicazione della norma le imprese diverse dagli over-the-top e, ancora una volta, quelle nazionali;
esaminando i correttivi apportati dal Governo, appare evidente che lo stesso non abbia fatto altro che ispirarsi, nuovamente, a esempi non nazionali quali l'identica imposta francese, la quale prevede esplicitamente, tra gli altri, un sistema di sospensione dell'applicazione delle norme e di compensazione degli importi al momento del raggiungimento di un accordo internazionale in materia;
diversamente dall'esempio francese, tuttavia, il legislatore italiano ha lasciato invariati i parametri quantitativi e, soprattutto, qualitativi dei ricavi ai quali possa essere applicata la digital tax, imponendo a tutte le imprese che ricavino, congiuntamente, 750 milioni di euro dalle attività di impresa complessivamente intese e 5,5 milioni di euro dalla fornitura di servizi digitali, di essere assoggettate all'imposta;
le modifiche introdotte con la legge di bilancio 2020, inoltre, hanno sensibilmente ridotto i tempi per l'attuazione definitiva dell'imposta, circostanza che rende ancora più urgente la risoluzione delle criticità applicative della «Digital Tax»;
i grandi operatori del web, quali Google, Amazon, Facebook e altri, secondo le stime più recenti, sono al centro di un sistema economico che assicura a pochissimi Ott un fatturato che si assesterebbe intorno agli 850 miliardi di euro a livello globale, a fronte di un risibile contributo alle casse dello Stato pari a circa 64 milioni di euro e a poco più di 39 milioni di euro a titolo di sanzioni;
in sede di esame del disegno di legge di bilancio 2020, purtroppo, non è stato approvato alcun emendamento presentato in Parlamento dal Gruppo Forza Italia-Berlusconi Presidente, come pure da parte di altri gruppi parlamentari, finalizzato a modificare i parametri previsti dalla norma, imputando le somme ivi citate ai soli ricavi digitali;
spiace davvero che il Governo non abbia colto il grido di allarme di molte imprese italiane che saranno ingiustamente colpite dalla digital tax all'italiana così come disciplinata dalla legge di bilancio 2020. La Francia ed altri Paesi hanno giustamente disegnato su misura, per le loro rispettive esigenze, la nuova imposta digitale per colpire quelle asimmetrie fiscali di cui godono i giganti del web, ovvero multinazionali che con il web creano, di fatto, pochissimi posti di lavoro, tantissimi profitti, ma che non restituiscono molto poco se non quasi nulla dal punto di vista tributario ai Paesi nei quali questi ricavi vengono realizzati;
nel 2018 questi colossi mondiali del web con una filiale nel nostro Paese hanno lasciato al fisco italiano, come già evidenziato, solo delle briciole: 64 milioni di euro è, infatti, il saldo di quanto versato da 15 società WebSoft secondo la recente analisi di R&S Mediobanca, a cui si aggiungono i 12,5 milioni di Apple, non inclusa nel campione. Amazon ha pagato 6 milioni, Microsoft 16,5 milioni, Google 4,7 milioni, Oracle 3,2 milioni, Facebook 1,7 milioni, Uber 153 mila euro e Alibaba 20 mila euro. Il meccanismo utilizzato dalle big tech per risparmiare sulle tasse è sempre lo stesso, quello di spostare il fatturato delle controllate italiane in Paesi dove le aliquote fiscali sono basse, continuando a trovare più conveniente pagare centinaia di milioni in transazioni – come hanno fatto Google nel 2017 (306 milioni), Apple nel 2015 (318 milioni), Amazon nel 2017 (100 milioni) e Facebook nel 2018 (100 milioni) – anziché fatturare nel nostro Paese il giro d'affari riferibile ai clienti italiani;
il Governo ha accolto al Senato come raccomandazione l'ordine del giorno del Gruppo Forza Italia presentato al disegno di legge di bilancio 2020 G/1586/148/5 con il quale si impegna a «chiarire che l'imposta sui servizi digitali si applichi esclusivamente ai soggetti esercenti attività d'impresa che generano ricavi, sia a livello nazionale sia a livello globale, da servizi digitali»;
al riguardo si deve considerare che nel 2018 i ricavi pubblicitari, non tassati, generati in Italia solo dalle maggiori società del settore (elaborazioni CRTV su dati Nielsen, FCP Assointemet, Polimi/IAB), superano i 2,6 miliardi di euro, pari al 70 per cento degli investimenti in pubblicità on-line. Si tratta di dati parziali del valore generato dalle multinazionali del web, perché i ricavi derivano anche da abbonamenti e da elaborazione/profilazione/vendita dei dati degli utenti e usi di big data per scopi di machine learning/intelligenza artificiale;
al fine di arginare, seppur ormai in modo marginale il sopravvento dei «giganti del web» sulle imprese nazionali che competono negli stessi mercati è necessario un chiarimento determinante relativamente ai soggetti passivi ai quali verrà applicata l'imposta e alla tipologia di ricavi soggetti a tale imposizione, altrimenti verrebbero ingiustamente penalizzate imprese nazionali che, singolarmente o a livello di gruppo, realizzano ricavi superiori alla soglia indicata dalla legge di bilancio 2020 derivanti non solo da servizi digitali. Imprese che pagano già le tasse per la fornitura degli stessi servizi;
d'altro canto, l'introduzione della «digital tax» nel nostro ordinamento giuridico deve considerarsi condivisibile quando persegue l'obiettivo di colpire le multinazionali della «digital economy» che sfuggono da tempo al fisco italiano, ma non può che ritenersi profondamente ingiusta quando colpisce nello stesso modo le imprese nel volume complessivo di ricavi e non solo quelli derivanti da servizi digitali;
è, dunque, necessario un intervento che consenta di recuperare un serio obiettivo di equità fiscale;
da ultimo un recente report dell'Ufficio studi della Cgia di Mestre ha evidenziato che le piccole e medie imprese (Pmi) italiane hanno un carico fiscale quasi doppio delle multinazionali del web. Se, infatti le pmi italiane hanno un carico fiscale complessivo che si attesta al 59,1 per cento dei profitti (The World Bank, «Doing Business 2020», 24 ottobre 2019), le multinazionali del web presenti in Italia, o meglio le controllate di questi giganti economici ubicate nel nostro Paese, registrano un tax rate del 33,1 per cento (Area Studi Mediobanca, «I giganti del websoft», 27 novembre 2019),
impegna il Governo:
1) ad adottare ogni iniziativa normativa finalizzata ad escludere dal campo di applicazione della digital tax, come disciplinata dalla legge di bilancio 2020, le imprese nazionali, sulla scia di quanto peraltro già previsto in altri Stati membri;
2) ad adottare iniziative per assicurare che l'imposta sia opportunamente volta a garantire il previsto gettito attraverso la tassazione dei soli grandi operatori del web che beneficiano di regimi fiscali agevolati in ragione della articolazione territoriale delle proprie organizzazioni, modificando i parametri economici definiti e imputandoli ai soli ricavi derivanti dalla fornitura di servizi digitali;
3) ad assumere iniziative per adeguare la normativa in materia fiscale ai rilievi delle competenti autorità di settore, quali l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, in materia di definizione dei ricavi assoggettabili a discipline che obblighino le imprese concessionarie di pubblicità alla contribuzione generale a favore dell'erario;
4) a porre in essere ogni iniziativa di competenza presso le competenti sedi europee finalizzata a rivedere la proposta di direttiva COM(2018) 148 final del Consiglio relativa al sistema comune d'imposta sui servizi digitali applicabile ai ricavi derivanti dalla fornitura di taluni servizi digitali, nel senso di elevare l'imposta attualmente applicata nella misura del 3 per cento sui ricavi derivanti dalla fornitura di servizi digitali delle multinazionali del web.
(1-00313)
Sulla cosiddetta «Digital Tax», l'imposta applicata sui ricavi derivanti dalla fornitura di servizi digitali - Mozione n. 1-00313 presentata il 14 gennaio 2020, riformulata il 3 novembre 2020.
Pubblicazione del testo riformulato.
La Camera,
premesso che:
con la legge 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio 2019) prima e, successivamente, con la legge 27 dicembre 2019, n. 160 (legge di bilancio 2020) è stato definito il perimetro normativo della cosiddetta «Digital Tax», ovverosia l'imposta applicata, nella misura del 3 per cento, sui ricavi derivanti dalla fornitura di servizi digitali;
la forma e le modalità applicative della suddetta «Digital Tax» sono state mutuate dalla proposta di direttiva COM(2018)148 final del Consiglio relativa al sistema comune d'imposta sui servizi digitali applicabile ai ricavi derivanti dalla fornitura di taluni servizi digitali;
l'imposta introdotta dal Governo nel dicembre 2019, allo scopo di assoggettare al dovuto prelievo fiscale i grandi operatori internet, i cosiddetti «Ott» (over-the-top), purtuttavia, per come formulata, non consente di escludere dal campo di applicazione le imprese che fruiscono, dietro corrispettivo, dei servizi digitali messi a disposizione dagli (Ott) e, soprattutto, le imprese nazionali;
le suddette criticità, oltre a non aver consentito nel corso del 2019 di rendere effettivamente operativa l'imposta, sono state segnalate all'Esecutivo da tutta la filiera digitale, conducendolo ad apportare una serie di correttivi all'imposta con la citata legge di bilancio 2020 che, comunque, non consentono di escludere dal campo di applicazione della norma le imprese diverse dagli over-the-top e, ancora una volta, quelle nazionali;
esaminando i correttivi apportati dal Governo, appare evidente che lo stesso non abbia fatto altro che ispirarsi, nuovamente, a esempi non nazionali quali l'identica imposta francese, la quale prevede esplicitamente, tra gli altri, un sistema di sospensione dell'applicazione delle norme e di compensazione degli importi al momento del raggiungimento di un accordo internazionale in materia;
diversamente dall'esempio francese, tuttavia, il legislatore italiano ha lasciato invariati i parametri quantitativi e, soprattutto, qualitativi dei ricavi ai quali possa essere applicata la digital tax, imponendo a tutte le imprese che ricavino, congiuntamente, 750 milioni di euro dalle attività di impresa complessivamente intese e 5,5 milioni di euro dalla fornitura di servizi digitali, di essere assoggettate all'imposta;
le modifiche introdotte con la legge di bilancio 2020, inoltre, hanno sensibilmente ridotto i tempi per l'attuazione definitiva dell'imposta, circostanza che rende ancora più urgente la risoluzione delle criticità applicative della «Digital Tax»;
i grandi operatori del web, quali Google, Amazon, Facebook e altri, secondo le stime più recenti, sono al centro di un sistema economico che assicura a pochissimi Ott un fatturato che si assesterebbe intorno agli 850 miliardi di euro a livello globale, a fronte di un risibile contributo alle casse dello Stato pari a circa 64 milioni di euro e a poco più di 39 milioni di euro a titolo di sanzioni;
in sede di esame del disegno di legge di bilancio 2020, purtroppo, non è stato approvato alcun emendamento presentato in Parlamento dal Gruppo Forza Italia-Berlusconi Presidente, come pure da parte di altri gruppi parlamentari, finalizzato a modificare i parametri previsti dalla norma, imputando le somme ivi citate ai soli ricavi digitali;
spiace davvero che il Governo non abbia colto il grido di allarme di molte imprese italiane che saranno ingiustamente colpite dalla digital tax all'italiana così come disciplinata dalla legge di bilancio 2020. La Francia ed altri Paesi hanno giustamente disegnato su misura, per le loro rispettive esigenze, la nuova imposta digitale per colpire quelle asimmetrie fiscali di cui godono i giganti del web, ovvero multinazionali che con il web creano, di fatto, pochissimi posti di lavoro, tantissimi profitti, ma che non restituiscono molto poco se non quasi nulla dal punto di vista tributario ai Paesi nei quali questi ricavi vengono realizzati;
nel 2018 questi colossi mondiali del web con una filiale nel nostro Paese hanno lasciato al fisco italiano, come già evidenziato, solo 64 milioni di euro che è, infatti, il saldo di quanto versato da 15 società WebSoft secondo la recente analisi di R&S Mediobanca, a cui si aggiungono i 12,5 milioni di Apple, non inclusa nel campione. Amazon ha pagato 6 milioni, Microsoft 16,5 milioni, Google 4,7 milioni, Oracle 3,2 milioni, Facebook 1,7 milioni, Uber 153 mila euro e Alibaba 20 mila euro. Il meccanismo utilizzato dalle big tech per risparmiare sulle tasse è sempre lo stesso, quello di spostare il fatturato delle controllate italiane in Paesi dove le aliquote fiscali sono basse, continuando a trovare più conveniente pagare centinaia di milioni in transazioni – come hanno fatto Google nel 2017 (306 milioni), Apple nel 2015 (318 milioni), Amazon nel 2017 (100 milioni) e Facebook nel 2018 (100 milioni) – anziché fatturare nel nostro Paese il giro d'affari riferibile ai clienti italiani;
la necessità di intervenire in materia di imposta sui servizi digitali nei confronti dei cosiddetti "Ott" è tanto più urgente se si tiene conto che, nelle more dell'attuazione delle disposizioni citate, anche l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ha inteso aprire una istruttoria nei confronti di Google per abuso di posizione dominante nel mercato italiano del display advertising;
il Governo ha accolto al Senato come raccomandazione l'ordine del giorno del Gruppo Forza Italia presentato al disegno di legge di bilancio 2020 G/1586/148/5 con il quale si impegna a «chiarire che l'imposta sui servizi digitali si applichi esclusivamente ai soggetti esercenti attività d'impresa che generano ricavi, sia a livello nazionale sia a livello globale, da servizi digitali»;
al riguardo si deve considerare che nel 2018 i ricavi pubblicitari, non tassati, generati in Italia solo dalle maggiori società del settore (elaborazioni CRTV su dati Nielsen, FCP Assointernet, Polimi/IAB), superano i 2,6 miliardi di euro, pari al 70 per cento degli investimenti in pubblicità on-line. Si tratta di dati parziali del valore generato dalle multinazionali del web, perché i ricavi derivano anche da abbonamenti e da elaborazione/profilazione/vendita dei dati degli utenti e usi di big data per scopi di machine learning/intelligenza artificiale;
al fine di arginare, seppur ormai in modo marginale il sopravvento dei «giganti del web» sulle imprese nazionali che competono negli stessi mercati è necessario un chiarimento determinante relativamente ai soggetti passivi ai quali verrà applicata l'imposta e alla tipologia di ricavi soggetti a tale imposizione, altrimenti verrebbero ingiustamente penalizzate imprese nazionali che, singolarmente o a livello di gruppo, realizzano ricavi superiori alla soglia indicata dalla legge di bilancio 2020 derivanti non solo da servizi digitali. Imprese che pagano già le tasse per la fornitura degli stessi servizi;
d'altro canto, l'introduzione della «digital tax» nel nostro ordinamento giuridico deve considerarsi condivisibile quando persegue l'obiettivo di colpire le multinazionali della «digital economy» che sfuggono da tempo al fisco italiano, ma non può che ritenersi profondamente ingiusta quando colpisce nello stesso modo le imprese nel volume complessivo di ricavi e non solo quelli derivanti da servizi digitali;
nel cruciale mercato della pubblicità online, che Google controlla anche grazie alla sua posizione dominante su larga parte della filiera digitale, l'Autorità garante ha recentemente contestato alla società l'utilizzo discriminatorio dell'enorme mole di dati raccolti attraverso le proprie applicazioni, impedendo agli operatori concorrenti nei mercati della raccolta pubblicitaria online di competere in modo efficace;
in particolare, Google sembrerebbe aver posto in essere una condotta di discriminazione interna-esterna, rifiutandosi di fornire le chiavi di decriptazione dell'ID Google ed escludendo i pixel di tracciamento di terze parti. Allo stesso tempo avrebbe utilizzato elementi traccianti che consentono di rendere i propri servizi di intermediazione pubblicitaria in grado di raggiungere una capacità di targhettizzazione che alcuni concorrenti altrettanto efficienti non sono in grado di replicare;
è dunque, necessario un intervento che consenta di recuperare un serio obiettivo di equità fiscale;
da ultimo un recente report dell'Ufficio studi della Cgia di Mestre ha evidenziato che le piccole e medie imprese (Pmi) italiane hanno un carico fiscale quasi doppio delle multinazionali del web. Se, infatti le pmi italiane hanno un carico fiscale complessivo che si attesta al 59,1 per cento dei profitti (The World Bank, «Doing Business 2020», 24 ottobre 2019), le multinazionali del web presenti in Italia, o meglio le controllate di questi giganti economici ubicate nel nostro Paese, registrano un tax rate del 33,1 per cento (Area Studi Mediobanca, «I giganti del websoft», 27 novembre 2019);
la pandemia da COVID-19, ed i connessi effetti economici, hanno peraltro costretto il Governo a proporre al Parlamento una serie di scostamenti di bilancio a copertura degli interventi economici quando l'effettiva applicazione delle digital tax assicurerebbe alla finanza pubblica un gettito stimato di circa 600 milioni di euro annui;
si evidenzia, inoltre, che con la pandemia da COVID-19 e a seguito dell'adozione di provvedimenti restrittivi quali il lockdown, mentre le attività commerciali di vicinato, tra cui le botteghe storiche, in molti casi chiudono non essendo in grado di sopravvivere, i colossi del web continuano ad aumentare i propri profitti senza neanche corrispondere degli sconti alla clientela, beneficiando di una situazione in cui si registra un maggior ricorso agli acquisti on line e dell'utilizzo di servizi internet. Amazon, ad esempio, nel terzo trimestre 2020 ha triplicato i propri profitti che sono cresciuti del 197 per cento a 6,3 miliardi di dollari, con un aumento delle vendite del 37 per cento superando i 96 miliardi di dollari (i dati riguardano il periodo luglio e settembre e non tengono peraltro conto degli incassi dell'«Amazon prime day» che quest'anno si è svolto tra il 13 e il 14 ottobre). A salire pure sono state le azioni dell'altro colosso del web ossia Alphabet, che possiede Google. Tale gruppo ha diffuso una trimestrale con un incremento dei ricavi pubblicitari da 33 a 37 miliardi di dollari oltre incassi in crescita per la controllata You Tube (da 3,8 a 5 miliardi) e per i servizi di Google Cloud (da 2,4 a 3,4 miliardi) grazie alla domanda di servizi digitali in aumento per la pandemia,
impegna il Governo:
1) ad adottare ogni iniziativa normativa finalizzata ad escludere dal campo di applicazione della digital tax, come disciplinata dalla legge di bilancio 2020, le imprese nazionali, sulla scia di quanto peraltro già previsto in altri Stati membri;
2) anche tenuto conto della situazione emergenziale in corso, ad adottare iniziative per assicurare che l'imposta sia opportunamente volta a garantire il previsto gettito attraverso la tassazione dei soli grandi operatori del web che beneficiano di regimi fiscali agevolati in ragione della articolazione territoriale delle proprie organizzazioni, modificando i parametri economici definiti e imputandoli ai soli ricavi derivanti dalla fornitura di servizi digitali;
3) ad assumere iniziative per adeguare la normativa in materia fiscale ai rilievi delle competenti autorità di settore, quali l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, in materia di definizione dei ricavi assoggettabili a discipline che obblighino le imprese concessionarie di pubblicità alla contribuzione generale a favore dell'erario;
4) a porre in essere ogni iniziativa di competenza presso le competenti sedi europee finalizzata a rivedere la proposta di direttiva COM(2018)148 final del Consiglio relativa al sistema comune d'imposta sui servizi digitali applicabile ai ricavi derivanti dalla fornitura di taluni servizi digitali, nel senso di elevare l'imposta attualmente applicata nella misura del 3 per cento sui ricavi derivanti dalla fornitura di servizi digitali delle multinazionali del web;
5) ad adottare, nell'ambito della prossima manovra di bilancio 2021, ogni iniziativa di competenza finalizzata ad adeguare il prelievo fiscale dovuto da parte dei colossi del web, nonché a destinare in via prioritaria le risorse rinvenienti all'abbattimento della pressione fiscale gravante sulle piccole e medie imprese maggiormente danneggiate a seguito dei provvedimenti restrittivi emanati dal Governo in relazione all'emergenza causata dal virus COVID-19 e sulle attività commerciali di vicinato, tra cui le botteghe storiche, che rappresentano un patrimonio unico dal punto di vista culturale e della tutela del made in Italy delle città del nostro Paese.
(1-00313) (Nuova formulazione)